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{racconto} I want to be a part of it di Vanessa Piccoli

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Ogni mattina, mentre camminava con la testa incassata nelle spalle e il naso nascosto sotto la sciarpa, Fabio aveva due pensieri ricorrenti, che poi in realtà erano uno solo. Prima di tutto pensava a quel film sugli emigranti siciliani che gli avevano fatto vedere al liceo, alla scena del fiume di latte, quando loro ci nuotano dentro beati e si aggrappano alla carota gigante. Poi automaticamente pensava al momento in cui aveva aperto l’e-mail di Tony, in piedi davanti alla scrivania con in bocca mezza merendina, a come aveva riletto quelle righe più volte sorridendo come idiota. Aveva pure fatto uno di quei gesti di esultanza da telefilm americano, tipo yes yes yes! col pugno stretto e il gomito piegato. Quando arrivava a questo punto, nella catena dei suoi pensieri, Fabio si trovava di solito all’ingresso della metro. Passava di fronte al gabbiotto col ciccione nero che lo guardava storto e, mentre faceva scattare la sbarra, pensava inevitabilmente sono un coglione.

Alla stazione di Myrtle Avenue, alle sei di mattina, c’erano sempre le solite facce: qualche povero cristo che andava a lavorare, un paio di ubriaconi e la matta delle foto. La prima volta che l’aveva fermato Fabio non aveva capito neanche metà del suo discorso, aveva supposto che il bambino nella foto fosse suo figlio o suo nipote e che lei l’avesse perso. Si preoccupò sinceramente e andò a parlare con il ciccione del gabbiotto. Passò cinque minuti buoni a cercare di spiegarsi con il suo inglese stentato, convinto che l’immobilità dell’impiegato dipendesse da un problema di comunicazione o, in alternativa, da un’improvvisa paralisi. Poi finalmente il ciccione si mosse, pigiò con fatica il pulsantino per la comunicazione e disse There ain’t no child missing, man. She’s just a fool. Ritornato sul binario Fabio vide la donna mostrare a una ragazza annoiata la foto di un pappagallo.

Per arrivare al lavoro a Fabio ci volevano circa 40 minuti. Dopodiché, uscito a South Ferry, saliva la grande scalinata e timbrava il cartellino. Poi s’imbarcava. Quando il caro zio Tony mesi prima gli aveva scritto Ti trovo io un good job nel business della famiglia, Fabio non si aspettava certo di fare il super manager, ma il suo concetto di good job di sicuro non comprendeva stare tutto il giorno al freddo a controllare che qualche turista idiota non cadesse in acqua per fotografare la statua della libertà. Quando riusciva a guardare alla situazione con distacco Fabio trovava che ci fosse una grande ironia in tutta quella sua avventura: era voluto andare in America a fare fortuna e dov’era finito? Sul traghetto per Ellis Island. Proprio come migliaia e migliaia di altri poveri coglioni, come il padre di Tony, il leggendario Vito, che era partito con un pugno di moscerini – come Tony non si stancava mai di ripetere – ed era morto con tre case e un’azienda. Anche Ellis Island gli faceva venire in mente il film con i siciliani. Pensava ai test che gli facevano e si chiedeva se lui li avrebbe superati oppure se l’avrebbero rimandato indietro sulla nave di quelli che per l’America non avevano il fisico.
A lui, per vivere a New York, più che il fisico mancava lo stomaco. Per anni, mentre malediceva Frosinone, il Lazio e tutte le province del mondo, aveva sognato la vita della grande metropoli: perdersi tra la gente, esplorare posti nuovi, poter prendere il caffè in un bar diverso ogni mattina. La prima settimana a New York aveva camminato per ore ogni giorno in uno stato di esaltazione quasi mistica, senza sentire la stanchezza, riempiendosi gli occhi e i polmoni delle emanazioni di quell’incredibile crocevia di vite. Poi con il passare del tempo il fascino di quei palazzoni e delle loro scale antincendio era scemato e Fabio si era reso conto che anche se cambiava bar ogni giorno, nove volte su dieci finiva in uno Starbuck’s e sborsava 4 dollari per un caffè che sapeva di acqua sporca.

Il momento migliore della sua giornata era quando prendeva la metro per tornare a casa, alle 17 in punto. Stava ben attento a prenderla a quell’ora, perché sapeva che c’era lei, Redhead. Non aveva mai avuto il coraggio di parlarle, ma ogni tanto era riuscito a sedersi accanto a lei, sfiorarle leggermente la gamba con la sua. Redhead era bella come una giovane elfa, aveva i capelli sottilissimi, la pelle liscia, gli occhi verde smeraldo e un sorriso incantevole, con un leggerissimo spazio fra gli incisivi. Gli aveva sorriso solo una volta, quando lui, precipitandosi per prendere posto accanto a lei, aveva travolto una vecchietta cinese che l’aveva riempito di insulti incomprensibili. Di solito Redhead non faceva caso agli altri passeggeri, se ne stava lì seduta e sferruzzava un lavoro con l’uncinetto. Facevano insieme quasi tutto il tragitto, cambio compreso, lei scendeva due fermate prima di lui. Una volta, in un momento di arditezza, l’aveva seguita per vedere dove viveva. A metà strada però lei si era fermata a guardare una vetrina e Fabio era corso via col cuore in gola, convinto che l’avesse preso per uno stalker.

Quando tornava a casa di solito il suo coinquilino non c’era. I primi tempi aveva cercato di fare amicizia con Sam e i suoi amici, un gruppo di presunti studenti arrivati da qualche landa desolata nel Missouri, ma l’unica cosa che facevano era bere birra fino a scoppiare, guardare programmi idioti in tv e deridere chiunque non fosse bianco, ricco e americano – Fabio compreso – così aveva smesso di frequentarli. Per fortuna Sam aveva orari molto diversi dai suoi e non si incrociavano quasi mai.
Entrato in camera sua Fabio si buttava sul letto a guardare qualche serie in streaming, quando gli veniva fame andava a frugare nel frigo e in caso di bisogno scendeva a comprare qualcosa nel supermercato ebraico sotto casa. Se era malinconico prendeva la chitarra di Sam e suonava il repertorio del suo gruppo punk del liceo. Poi si sentiva patetico e si riprometteva di non farlo mai più.

Ovviamente avrebbe potuto tornarsene a casa. Sua madre glielo ripeteva quasi ogni sera. Ti sei fatto un’esperienza – urlava per farsi sentire da suo figlio così lontano, incastrato in quella finestrella sul computer – ti sei imparato l’inglese. Poi faceva una pausa e iniziava a parlargli di tutti i suoi amici che erano andati all’università Mica è troppo tardi. Pensa che il figlio di Rosanna s’è iscritto che c’aveva già 25 anni e mo’ è quasi avvocato! Fabio allora guardava altrove e chiedeva alla madre notizie sulle malefatte della vicina o sulle tresche del suo capo. Poi quando riattaccava si metteva a guardare i corsi di laurea della Sapienza e di Bologna. Magari Alfredo e gli altri l’avrebbero potuto ospitare all’inizio, mentre cercava casa. Avrebbe potuto iscriversi a lingue o antropologia. Mangiare una vera pizza e giocare a risiko con i suoi amici. Magari lavorare il week-end, visto che di soldi in America non è che ne stesse facendo molti.
Più il tempo passava più le resistenze di Fabio si facevano deboli, sapeva che presto avrebbe ceduto e avrebbe lasciato che la madre gli comprasse il biglietto di ritorno. Ma doveva reggere almeno un altro po’, almeno fino a Pasqua. Sì, forse poteva tornare per Pasqua, per mangiare le costolette d’agnello della nonna, che poveretta la nonna era anziana ed era stata tanto triste per la sua assenza a Natale. Il problema era cosa avrebbe raccontato a tutti quanti, con che faccia avrebbe guardato quelli a cui, pochi mesi prima, aveva annunciato Me ne vado a New York. Po’ esse pure che ce resto per sempre.

Non poteva dire la verità. Tornare va bene, ma ammettere la sconfitta mai. In fondo non era neanche mentire, era solo abbellire un po’ la realtà – si diceva Fabio nel buio del suo letto – giusto per non deludere gli amici. Avrebbe detto che New York è una figata, che puoi uscire a qualsiasi ora del giorno o della notte e trovi sempre gente. Che il suo coinquilino era un musicista fuori di testa, che gli aveva presentato mezza New York e che a casa loro facevano feste selvagge praticamente ogni week-end. Per lavoro doveva starsene tutto il giorno beatamente in barca, in mezzo a comitive di turiste svedesi che spesso e volentieri gli lasciavano il numero. Aveva avuto un sacco di storielle, ma l’unica di cui gli era importato davvero era Fiona, una roscia irlandese che lavora nella moda. Sono stati insieme per un po’ lui e Fiona, ma poi lei è dovuta tornare in Irlanda. Anzi no, ha avuto un importante lavoro in Cina. O meglio, è lui che l’ha lasciata, perché non voleva impegnarsi troppo. In ogni caso è stata una storia molto bella – si racconta Fabio mentre il sonno gli piomba addosso – e quegli occhi verdi non se li scorderà mai.

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